Ciò che potrebbe sembrare un dilemma, in realtà, non lo è. Cosa c’è di più bello dell’essere uno ma anche l’altro…
Viviamo in una cultura che spesso separa, incasella, distingue: da un lato l’intelletto, la riflessione, la mente. Dall’altro il corpo, l’azione, il movimento. Il pensatore e l’atleta. Lo studio e l’allenamento. La biblioteca e il campo da gioco. Ma questa divisione è davvero necessaria? E soprattutto: è reale?
Il binomio “pensatore o atleta” riecheggia un dualismo antico, figlio della filosofia platonica, dove il corpo era visto come ostacolo alla verità, zavorra dell’anima. Eppure, proprio Platone, maestro del pensiero, era anche un lottatore. Non è un caso che la sua Accademia — uno dei primi luoghi istituzionali del sapere occidentale — fosse situata accanto a una palestra. Il sapere, per i Greci, era tutt’uno con il corpo. Filosofia e ginnastica convivevano, si nutrivano a vicenda. Il kalòs kagathòs, l’ideale dell’uomo bello e buono, non scindeva mente e corpo, ma li armonizzava.
Oggi, invece, tendiamo a incasellare le identità. Lo studente “secchione” non è sportivo. L’atleta “duro e puro” non è certo un pensatore. Ma si tratta di stereotipi culturali, spesso vuoti, che ignorano la complessità dell’esperienza umana. E, soprattutto, che impoveriscono entrambe le dimensioni.
Il pensatore che non ascolta il proprio corpo rischia di diventare astratto, scollegato dalla realtà, vittima di un intelletto sterile. L’atleta che non coltiva il pensiero rischia di cadere nella meccanicità, nell’automatismo, perdendo il senso profondo del gesto atletico.
Essere atleti è già una forma di pensiero. Il corpo che si muove nello spazio, che si adatta, che apprende, che risponde agli stimoli, è un corpo intelligente. La decisione presa in una frazione di secondo, il gesto tecnico eseguito con precisione, la lettura di una partita, la strategia messa in atto: tutto questo richiede riflessione, intuito, consapevolezza.
Allo stesso tempo, il pensiero può farsi movimento. Riflettere sul proprio limite, interrogarsi sul significato della fatica, esplorare le emozioni della vittoria e della sconfitta, vivere pienamente l’esperienza corporea: è qui che la filosofia incontra lo sport, non come teoria astratta, ma come pratica incarnata.
Nel mondo contemporaneo abbiamo bisogno di figure ibride, capaci di pensare e agire, di riflettere e di correre, di stare in silenzio e di urlare sul traguardo. L’atleta-filosofo è colui che si allena non solo per vincere, ma per comprendere; non solo per superare un avversario, ma per superare sé stesso.
Allo stesso modo, il filosofo-atleta è colui che riconosce il corpo come luogo di conoscenza, che vive la propria corporeità non come un ostacolo, ma come una via d’accesso al mondo.
Dunque no, non è un vero dilemma. Pensatore e atleta: è questa la direzione. Unire testa e cuore, ragione e muscolo, analisi e istinto. È il ritorno a un’idea di essere umano completa, complessa, profonda.
Perché in fondo, ogni salto, ogni corsa, ogni caduta e ogni ripartenza… raccontano una filosofia. E ogni pensiero autentico non è altro che un allenamento dell’anima.
“Il corpo non è l’opposto del pensiero. È la sua prima forma di espressione.”
CRISTINA LONGO

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